Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia delle Forche Caudine

321 a.C.

I consoli

Tiberio Veturio Calvino, console romano per due volte, nel 334 e nel 321 a.C.

Fu eletto console nel 334 a.C. con Spurio Postumio Albino Caudino. Inviati per combattere i Sidicini, non portarono a termine la campagna militare, per il timore che i Sanniti stessero per prendere le armi contro i romani.Fu eletto console nel 321 a.C. con Spurio Postumio Albino Caudino, entrambi al secondo consolato. I due consoli condussero l'esercito romano, in territorio sannita, fino all'imboscata presso Caudio, passata alla storia come la battaglia delle Forche Caudine. I Romani vennero attirati da finti pastori verso un passo che i Sanniti avevano fortificato, e si trovarono in una situazione di difficoltà. I consoli decisero allora di trattare con i Sanniti per uscire dalla situazione di stallo così creatasi, ma il comandante degli avversari obbligò i Romani a passare nudi sotto un giogo di lance per aver salva la vita. Eletti i due nuovi consoli, Lucio Papirio Cursore e Quinto Publilio Filone, il Senato prese a discutere delle condizioni di pace accettata dai consoli Romani, Tiberio Veturio e Spurio Postumio, alle Forche caudine. Fu il console Spurio a parlare perché le condizioni fossero rigettate, e che lui e Tiberio fossero consegnati ai Sanniti. Condotti nei pressi di Caudio per essere consegnati ai Sanniti, furono rimandati indietro liberi da Gaio Ponzio. La figura di Tiberio Veturio Calvino non venne mai riabilitata, e la gens Veturia, a causa della sua sconfitta, non ebbe più il consolato per cento anni, e subì una forte decadenza.


Spurio Postùmio Albino (lat. Sp. Postumius Albinus [Caudinus])

Console (334 a. C.), censore (332), console nuovamente (321), sconfitto ignominiosamente a Caudio, concluse una pace disonorevole; poiché i Romani non la confermarono, egli fu consegnato ai Sanniti, ma questi lo rimandarono indietro.

La genesi

Nel corso dell'anno successivo ci fu la pace di Caudio, rimasta celebre per la disfatta subita dai Romani, durante il consolato di Tito Veturio Calvino e Spurio Postumio. Quell'anno il comandante in capo dei Sabini era Gaio Ponzio figlio di Erennio, figlio di un padre che eccelleva in saggezza, e lui stesso guerriero e stratega di prim'ordine. Quando gli ambasciatori inviati a chiedere soddisfazione rientrarono senza aver concluso la pace, Gaio Ponzio disse: "Non crediate che questa ambasceria non abbia avuto esito alcuno, perche' con essa abbiamo espiato l'ira degli dei sorta nei nostri confronti per aver violato i patti. Qualunque sia stato il dio che ha voluto farci sottostare all'obbligo di restituire cio' che ci era stato richiesto in base alle clausole del trattato, sono sicuro che questo stesso dio non ha gradito che i Romani abbiano respinto con tanta arroganza la nostra riparazione per l'avvenuta rottura dei patti. Ma che cos'altro si sarebbe potuto fare per placare gli dei e rabbonire gli uomini, piu' di quello che gia' abbiamo fatto? Quel che e' stato tolto ai nemici come bottino, e che secondo le leggi di guerra avrebbe gia' potuto dirsi a buon diritto nostro, l'abbiamo restituito. I responsabili della guerra li abbiamo riconsegnati morti, visto che non ci e' stato possibile consegnarli vivi. Le loro cose, per evitare che ci rimanesse addosso qualcosa che potesse far ricadere la colpa su di noi, le abbiamo portate a Roma. Cos'altro devo a voi, o Romani, cosa ai trattati, e agli dei testimoni dei trattati? Chi vi devo proporre a giudice della vostra rabbia e della nostra pena? Non voglio sottrarmi al giudizio di nessuna popolazione e di nessun privato cittadino. Se infatti il piu' forte non concede al piu' debole alcun diritto umano, allora mi rivolgero' agli dei che si vendicano degli eccessi di superbia, e li implorero' di rivolgere le loro ire contro quanti non hanno ritenuto sufficiente la restituzione delle proprie cose ne' l'aggiunta delle altrui, contro quanti la cui ferocia non e' stata saziata dalla morte dei colpevoli, ne' dalla consegna dei cadaveri ne' dai beni che accompagnavano la resa dei loro legittimi proprietari, contro quanti non potranno mai essere placati se noi non offriremo loro il nostro sangue da succhiare e le nostre membra da sbranare. La guerra, o Sanniti, e' giusta per coloro ai quali risulta necessaria, e il ricorso alle armi e' sacrosanto per quelli cui non restano altre speranze se non nelle armi. Di conseguenza, se nelle imprese degli uomini e' una cosa di assoluta importanza avere gli dei dalla propria parte piuttosto che contro, state pur certi che le guerre del passato le abbiamo condotte piu' contro gli dei che contro gli uomini, mentre questa che e' ormai alle porte la condurremo agli ordini degli dei in persona".

L'imboscata

Dopo aver rivolto ai Sanniti queste profetiche parole non meno vere che di buon augurio, si mise alla testa dell'esercito andando ad accamparsi nei pressi di Caudio con la maggior segretezza possibile. Di li' invio' dieci soldati travestiti da pastori a Calazia, dove gli era giunta voce si trovassero gia' il console e l'accampamento romani, e ordino' loro di pascolare il bestiame vicino alle guarnigioni armate dei Romani, a distanza l'uno dall'altro. Nel caso si fossero poi imbattuti in predatori nemici, avrebbero dovuto riferire tutti la stessa storia, e cioe' che gli eserciti sanniti si trovavano in Apulia, che erano impegnati ad assediare Luceria con tutte le forze e ormai stavano per prenderla d'assalto. Questo tipo di voci, messe in circolo a bella posta in precedenza, era gia' arrivato alle orecchie dei Romani, e la loro attendibilita' venne incrementata dalle deposizioni dei prigionieri, che, e cio' ebbe un peso determinante, collimavano tutte tra di loro. Non c'era dubbio che i Romani erano chiamati a portare aiuto agli abitanti di Luceria, alleati valorosi e fedeli, anche per evitare che l'Apulia defezionasse in blocco di fronte alla minaccia incombente dei Sanniti. Si discusse soltanto sul percorso da compiere. Le strade che portavano a Luceria erano due: una lungo la costa adriatica, aperta e sgombra, ma tanto piu' lunga quanto piu' sicura, l'altra attraverso le Forche Caudine, piu' rapida. Si tratta pero' di un luogo con questo tipo di conformazione: due gole profonde, strette e coperte di boschi, collegate da una catena ininterrotta di montagne. In mezzo a queste montagne si apre una pianura abbastanza ampia, ricca di acque e di pascoli, e tagliata da una strada. Ora, per accedervi e' necessario attraversare la prima gola, mentre per uscire si deve o tornare sui propri passi per la strada fatta all'andata, oppure - qualora si voglia procedere - attraversare una gola ancora piu' stretta e impervia della prima. L'esercito romano, dopo aver raggiunto quella pianura attraverso uno dei passaggi incassati nella roccia, stava marciando verso la seconda gola, quando la trovo' ostruita da una barriera di tronchi abbattuti e di grossi massi. Era chiaro che si trattava di un agguato nemico: infatti avvistarono sulla cima della gola un manipolo di armati. Cercarono quindi, senza perdere un attimo, di ritornare indietro per il passaggio attraverso il quale erano arrivati, ma trovarono sbarrato anche questo da ostacoli naturali e da uomini armati. Allora, senza che nessuno lo avesse loro ordinato, si bloccarono, attoniti, le membra incapaci di muoversi. E guardandosi in faccia l'un l'altro, ciascuno nella speranza che il compagno avesse maggiore lucidita' e potesse prendere una qualche decisione, rimasero a lungo in silenzio. Poi, quando videro che si stavano piantando le tende dei consoli, e che qualcuno cominciava a preparare il materiale per allestire l'accampamento, pur rendendosi conto che costruire fortificazioni in una situazione pressoche' irreparabile e disperata avrebbe suscitato il riso del nemico, cio' non ostante, per non aggiungere la propria responsabilita' alla disgrazia, tutti - senza che nessuno li esortasse a farlo o lo ordinasse loro - si misero di propria iniziativa a costruire dei dispositivi di difesa, scavando una trincea intorno al campo nei pressi dell'acqua di un ruscello: e ironizzavano amaramente, quasi non bastassero le insolenti frecciate dei nemici, sull'inutilita' delle opere allestite e della fatica sostenuta. Attorno ai consoli tristi, che non convocavano nemmeno il consiglio di guerra (visto che non c'era consiglio o aiuto che potessero valere), si vennero a raccogliere di loro spontanea volonta' i luogotenenti e i tribuni, mentre i soldati, girandosi verso il pretorio, chiedevano agli ufficiali quel sostegno che a malapena gli dei avrebbero potuto offrire.

La notte li sorprese mentre piu' che consultarsi si stavano lamentando del proprio destino, e ognuno di essi reagiva secondo il proprio carattere. Uno diceva: "Avanziamo attraverso le barriere lungo la strada, su per le pendici dei monti, attraverso i boschi, dovunque potremo portare le armi: cosi' che almeno si riesca ad arrivare fino al nemico, sul quale da quasi trent'anni abbiamo la meglio. Tutto sara' facile e agevole per dei soldati romani che combattono contro perfidi Sanniti". Un altro ribatteva: "Dove e per dove dovremmo andare? Non vogliamo per caso spostare i monti dalle loro sedi naturali? Finche' avremo queste cime sopra la testa, per quale via si potra' raggiungere il nemico? Armati o inermi, coraggiosi o vigliacchi, siamo tutti ugualmente prigionieri e vinti; il nemico non ci offrira' nemmeno una spada perche' possiamo morire in maniera gloriosa: vincero' la guerra senza muovere un dito". La notte trascorse tra battute di questo genere: nessuno penso' a riposare o a mangiare. Ma nemmeno i Sanniti, pur trovandosi in una congiuntura tanto favorevole, sapevano che cosa convenisse fare. E per questo decisero all'unanimita' di inviare un messaggio a Erennio Ponzio, padre del comandante in capo, per averne un consiglio. Quest'ultimo, avanti negli anni com'era, si era gia' ritirato non solo dall'attivita' militare, ma anche dalla vita politica. Cio' nonostante, nel suo corpo malato era ancora vivo il vigore dell'animo e dell'intelletto. Quando venne a sapere che gli eserciti romani erano stati schiacciati alle Forche Caudine tra due gole, essendogli stato chiesto un consiglio dal messaggero inviato dal figlio, propose di lasciarli andare al piu' presto tutti senza colpirli. Ma siccome questo consiglio non venne messo in pratica, inviato una seconda volta lo stesso messaggero col compito di consultarlo, egli propose di ucciderli tutti dal primo all'ultimo. Le risposte contrastavano tanto da sembrare il responso di un oracolo ambiguo: e il figlio - pur pensando che ormai anche la mente del padre avesse perso lucidita' nel corpo malato -, cio' nonostante si lascio' convincere dalle insistenze di tutto l'esercito a convocare il genitore di persona nell'assemblea. Stando a quanto si racconta, il vecchio non avrebbe fatto difficolta' a lasciarsi portare su un carro all'accampamento, e una volta introdotto nell'assemblea si sarebbe espresso all'incirca in questi termini, senza modificare in nulla il proprio parere, ma limitandosi a chiarirne i motivi: scegliendo la prima strada, che lui riteneva la piu' valida, ci si sarebbe assicurata una pace duratura e l'amicizia con un popolo potentissimo; optando invece per la seconda, si sarebbe evitata la guerra per molti anni, perche' dopo la perdita di quei due eserciti per i Romani non sarebbe stato facile raggiungere di nuovo la potenza di un tempo; una terza via non esisteva. Ma siccome il figlio e gli altri alti ufficiali insistevano a chiedere che cosa pensasse di una soluzione di compromesso - permettere cioe' ai Romani di andarsene sani e salvi, ma imporre loro, in quanto vinti, il diritto di guerra -, l'uomo rispose: "Questa soluzione e' tale che non vi acquistera' degli amici ne' vi liberera' dai nemici. Salvate pure la vita a uomini che avete esasperato con un trattamento umiliante: la caratteristica del popolo romano e' quella di non sapersi rassegnare alla condizione di vinto. Nei loro cuori sara' sempre vivo il marchio di infamia del caso presente, e questo non dara' loro pace fino a quando non vi avranno ripagato con pene molte volte piu' dure". Una volta respinte entrambe le sue proposte, Erennio venne ricondotto dall'accampamento in patria.

La scelta dell'accordo

Frattanto, nell'accampamento romano, falliti parecchi tentativi di fare breccia nell'accerchiamento, e mancando ormai ogni cosa, nella morsa degli eventi si decise di inviare ambasciatori a chiedere una pace a parita' di condizioni: se non l'avessero ottenuta, avrebbero sfidato il nemico in battaglia. Alla delegazione Ponzio replico' che la guerra era ormai stata decisa, e siccome neppure da sconfitti e da prigionieri erano in grado di ammettere la propria sorte, li avrebbe fatti passare sotto il giogo privi di armi e con una sola veste per ciascuno. Il resto delle condizioni sarebbero state eque per vincitori e vinti: se i Romani abbandonavano il territorio sannita e ritiravano le colonie fondate, allora Romani e Sanniti in futuro sarebbero vissuti attenendosi alle loro leggi in base a un patto di alleanza alla pari. Erano queste le condizioni alle quali egli era pronto a scendere a patti coi consoli. Se qualcuna di queste clausole non era di loro gradimento, allora vietava agli ambasciatori di ripresentarsi al suo cospetto. Quando venne riferito l'esito dell'ambasceria, il lamento levatosi immediatamente da tutto l'esercito fu cosi' profondo e gli animi vennero invasi da un tale sconforto, che il dolore non sarebbe stato piu' grande se fosse giunta la notizia che tutti erano destinati a morire in quello stesso luogo. Restarono a lungo in silenzio, e i consoli non riuscivano ad aprire bocca ne' per difendere un accordo cosi' infamante, ne' per respingere un patto tanto necessario, quando Lucio Lentulo, che tra gli ambasciatori inviati era allora il piu' autorevole per valore e per cariche ricoperte, disse: "Ricordo, o consoli, di aver spesso sentito mio padre raccontare di essere stato il solo, nel senato sul Campidoglio, a sconsigliare di riscattare Roma dai Galli pagandola a peso d'oro, perche' i Romani non erano stati circondati ne' con una trincea ne' con un fossato da quel nemico quanto mai indolente e poco portato ai lavori di fortificazione, ed erano in grado di tentare una sortita, pur rischiando moltissimo, ma senza andare incontro a un disastro sicuro. E se, come quelli erano stati in grado di lanciarsi dal Campidoglio armati contro il nemico, nel modo spesso utilizzato dagli assediati per tentare una sortita contro gli assedianti, venisse anche a noi concessa l'opportunita' di combattere (in posizione favorevole o meno), certo non mi mancherebbe lo spirito di mio padre nel guidarvi. Morire per la patria, lo ammetto, e' cosa gloriosa, e sono pronto a offrire la mia vita per il popolo e per l'esercito romano o a gettarmi nel mezzo dei nemici. Ma e' qui che vedo la patria, qui tutto quel che resta delle legioni romane, le quali, a meno che vogliano correre incontro alla morte per difendere se stesse, che cosa possono salvare con il loro sacrificio? "Le case della citta',"dira' qualcuno, "le mura e la gente rimasta a Roma". Ma, per Ercole, e' proprio se questo esercito verra' annientato che tutto cio' andra' perduto e non salvato! Chi, infatti, potra' difenderlo? Forse la massa imbelle e senz'armi? "Esattamente come le difese, per Ercole, dagli assalti dei Galli". Ma potra' forse invocare l'arrivo da Veio di un esercito con Camillo alla testa? Le nostre speranze e le nostre risorse le abbiamo tutte qui: se le salviamo, salviamo la patria, se invece le consegniamo alla morte, abbandoniamo la patria al suo destino. "La resa e' pero' cosa disonorevole e infamante". Ma proprio questo e' vero amor di patria: salvarla, qualora ve ne sia bisogno, a prezzo tanto del disonore quanto della morte. Vediamo quindi di subire questo marchio di infamia, per quanto indelebile esso possa essere, e pieghiamoci alla fatalita', che neppure gli dei possono superare. Andate, o consoli, e riscattate con le armi la citta' che i vostri antenati hanno riscattato con l'oro".

Le conseguenze

I consoli, essendo venuti a colloquio con Ponzio, mentre il vincitore voleva stipulare un trattato di pace, replicarono che il trattato non poteva essere stipulato senza il consenso del popolo, senza i feziali e il resto del consueto rituale. Per questo la pace di Caudio non fu stipulata con regolare trattato - come abitualmente si crede e come anche scrive Claudio -, ma tramite una garanzia personale. Infatti che bisogno ci sarebbe stato, per un trattato, di garanti e di ostaggi, visto che in quel caso l'accordo e' stipulato dall'invocazione che Giove colpisca quel popolo venuto meno alle condizioni sancite, cosi' come il maiale viene colpito dai feziali? Garanti si fecero i consoli, i luogotenenti, i questori, i tribuni militari, e ci restano i nomi di tutti coloro che sottoscrissero l'impegno (mentre rimarrebbero solo i nomi dei due feziali, nel caso fosse stato stipulato un vero e proprio trattato). Inoltre, per l'inevitabile rinvio del trattato, fu imposta la consegna di 600 cavalieri in qualita' di ostaggi, destinati a pagare con la propria vita se i patti venivano violati. Fu poi fissato il termine per consegnare gli ostaggi e per lasciare libero l'esercito disarmato. Il rientro dei consoli rinnovo' il dolore all'interno dell'accampamento, e i soldati si trattennero a stento dallo scagliarsi addosso a quanti, per la loro imprudenza, li avevano trascinati in quel luogo: per la cui ignavia erano adesso costretti a uscirne in maniera ancora piu' infamante di come vi erano entrati; non erano ricorsi a una guida pratica della zona, ne' avevano effettuato ricognizioni, lasciandosi spingere alla cieca dentro una fossa come tante bestie selvatiche. Si guardavano gli uni con gli altri, osservavano le armi che presto avrebbero dovuto consegnare, le mani destinate a essere disarmate, i corpi soggetti alla volonta' del nemico: avevano gia' di fronte agli occhi il giogo nemico, la derisione, gli sguardi arroganti dei vincitori, il passaggio senza armi in mezzo a uomini armati e ancora la mesta marcia dell'esercito disonorato attraverso le citta' alleate, il ritorno dai genitori in patria, la' dove spesso essi stessi e i loro antenati erano rientrati in trionfo. Solo loro erano stati sconfitti senza subire ferite, senza armi, senza combattere; a loro non era stato concesso ne' di sguainare le spade ne' di scontrarsi in battaglia col nemico; a loro era stato infuso invano il coraggio. Mentre mormoravano queste cose, arrivo' l'ora fatale dell'ignominia, destinata a rendere tutto, alla prova dei fatti, ancora piu' doloroso di quanto non avessero immaginato. In un primo tempo ricevettero disposizione di uscire dalla trincea senza armi, con addosso un'unica veste. I primi a essere consegnati e incarcerati furono gli ostaggi. Poi fu ingiunto ai littori di scostarsi dai consoli, cui fu invece tolta la mantella da generali: spettacolo questo che suscito' cosi' grande compassione anche tra quanti poco prima si erano scagliati contro i consoli proponendo di consegnarli al nemico e di farli a pezzi, che ciascuno dei presenti, dimentico della propria sorte, distolse lo sguardo da quella profanazione di una simile autorita', come dalla vista di qualcosa di abominevole.

I consoli furono i primi a esser fatti passare seminudi sotto il giogo; poi, in ordine di grado, tutti gli ufficiali vennero esposti all'infamia, e alla fine le singole legioni una dopo l'altra. I nemici stavano intorno con le armi in pugno, lanciando insulti e dileggiando i Romani. Molti vennero minacciati con le spade, e alcuni furono anche feriti e uccisi, se l'espressione troppo risentita dei loro volti a causa di quell'oltraggio offendeva il vincitore. Cosi' furono fatti passare sotto il giogo, e - cosa questa quasi ancora piu' penosa - proprio sotto gli occhi dei nemici. Una volta usciti dalla gola, pur sembrando loro di vedere per la prima volta la luce come se fossero emersi dagli inferi, cio' nonostante la luce in se' e per se' fu piu' dolorosa di ogni tipo di morte, al vedere una schiera ridotta in quello stato. E cosi', anche se avrebbero potuto raggiungere Capua prima di notte, dubitando dell'affidabilita' degli alleati e trattenuti dalla vergogna, lungo la strada che porta alla citta' abbandonarono a terra i loro corpi ormai bisognosi di tutto. Quando a Capua arrivo' la notizia del vergognoso episodio, l'arroganza congenita dei Campani venne meno di fronte alla naturale compassione nei confronti degli alleati. Inviarono immediatamente ai consoli le insegne della loro carica; ai soldati offrirono invece armi, cavalli, vestiti e cibo, e al loro arrivo si fecero loro incontro tutto il senato e il popolo, adempiendo cosi' a ogni tipo di obbligo formale in materia di ospitalita' pubblica e privata. Ma ne' l'umanita' degli alleati ne' la benevolenza dei volti poterono strappare una parola ai Romani, che nemmeno sollevavano gli occhi da terra per rivolgere uno sguardo agli amici che si sforzavano di consolarli. A tal punto la vergogna, ancor piu' dell'amarezza, li spingeva a evitare la conversazione e la compagnia degli esseri umani. Il giorno dopo alcuni giovani esponenti della nobilta' vennero inviati col compito di scortare fino al confine della Campania quelli che stavano partendo; al rientro, convocati in senato, rispondendo alle domande degli anziani, riferirono che i Romani avevano dato l'impressione di essere ancora piu' avviliti e mesti, tanto silenziosamente camminavano, come fossero diventati muti. Il fiero carattere romano era prostrato, e insieme alle armi aveva perso anche il coraggio. Nessuno aveva avuto la forza di ricambiare il saluto, di rispondere, di aprir bocca per lo sgomento, come se portassero ancora al collo il giogo sotto il quale erano stati fatti passare. La vittoria ottenuta dai Sanniti non era stata soltanto clamorosa, ma anche duratura nel tempo, perche' avevano privato il nemico non tanto di Roma (come in passato i Galli), quanto piuttosto della virtu' e dell'orgoglio romano, e questo dimostrava ancor di piu' il loro valore.

Mentre si dicevano e si sentivano queste cose, e nell'assemblea dei fedeli alleati la potenza romana veniva quasi pianta come se fosse stata annientata, pare che Aulo Calavio, figlio di Ovio, uomo famoso per nascita e per gesta compiute, e in quel periodo reso ancora piu' rispettabile dall'eta', avesse sostenuto che le cose stavano in tutt'altra maniera: quel silenzio ostinato, gli occhi fissi a terra, le orecchie sorde a ogni tipo di conforto e l'imbarazzo di dover guardare la luce erano i segnali di un animo che nell'intimo covava un'enorme rabbia. Se non conosceva male il carattere dei Romani, di li' a poco quel silenzio avrebbe suscitato tra i Sanniti grida piene di gemiti e dolore, e il ricordo della pace di Caudio sarrebbe stato molto piu' pesante per i Sanniti che per i Romani. Perche' dovunque si fossero scontrati nei giorni a venire, ognuno di essi avrebbe avuto la grinta di sempre, mentre per i Sanniti non ci sarebbero state dappertutto le Forche Caudine. La notizia della grave disfatta era gia' arrivata anche a Roma. In un primo tempo si era venuti a sapere che erano stati circondati. Poi, ben piu' doloroso di quello relativo al pericolo corso, era arrivato l'annuncio della vergognosa pace. Alla notizia dell'accerchiamento, erano state avviate le pratiche della leva militare. Quando pero' si venne a sapere che era stata stipulata una pace tanto infamante, venne interrotto l'allestimento di rinforzi. E subito, senza aspettare alcuna decisione ufficiale, il popolo tutto si era abbandonato a ogni forma di lutto. I negozi intorno al foro vennero chiusi, sospesi spontaneamente i pubblici affari prima ancora che arrivasse l'ordine relativo. Vennero deposte le toghe orlate di porpora e gli anelli d'oro. I cittadini erano quasi piu' addolorati dello stesso esercito; il loro risentimento non toccava soltanto i comandanti e i responsabili e garanti della pace, ma anche gli innocenti soldati: sostenevano che non li si dovesse accogliere in citta' ne' all'interno delle case. Il rancore venne pero' piegato dall'arrivo dell'esercito, che suscito' compassione anche negli animi piu' esacerbati. Entrati infatti in citta' a tarda sera, non come uomini che tornavano sani e salvi in patria contro ogni speranza, ma con l'aspetto e l'espressione di prigionieri, si rinchiusero nelle loro case e nessuno di essi volle vedere il foro o la pubblica via, ne' l'indomani ne' i giorni successivi. I consoli, nascosti nelle loro abitazioni, non compirono alcun gesto pertinente alla carica, tranne quanto prescritto da un decreto del senato, e cioe' la nomina di un dittatore cui far presiedere le elezioni. La scelta cadde su Quinto Fabio Ambusto, mentre maestro di cavalleria venne eletto Publio Elio Peto.



Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro IX